Riuscire a osservare (e prevedere) i fenomeni più estremi del cosmo: le onde gravitazionali
Ogni volta che si verifica un'interazione tra due oggetti massicci, vengono originate delle gigantesche onde gravitazionali – vere e proprie increspature del tessuto dello spaziotempo che si estendono alla velocità della luce. Questo è ciò che, nello scorso secolo, previde Einstein, e purtroppo finora gli astronomi non hanno avuto la possibilità di confermare la sue teorie. Ma la tecnologia sta facendo passi da gigante, e secondo molti scienziati la scoperta vera e propria di queste onde potrebbe essere dietro l'angolo – e saremmo perfino in grado di anticiparle.
Catturare queste onde è però complicato, anche se a produrle sono enormi buchi neri in collisione con masse di milioni di volte quella della nostra stella. Ci vorranno strumenti più avanzati, come la Laser Interferometer Space Antenna che è attualmente in fase di elaborazione ed è stata subito approvata dalla comunità scientifica.
Gli scienziati stanno aspettando impazientemente la sua entrata in funzione, e nel frattempo hanno sviluppato dei modelli super-computerizzati per capire cosa aspettarsi dalle prime ricerche. L'ultimo modello sviluppato dagli scienziati del centro spaziale Goddard cerca di prevedere il flash che si pensa sarà rilevato dallo strumento quando i ricercatori osserveranno una collisione fra buchi neri enormi.
I buchi neri sono oggetti talmente massicci che nulla può sfuggire alla loro attrazione gravitazionale, nemmeno la luce: per questo sono «invisibili», nel senso che non emettono né riflettono fotoni. La maggior parte delle galassie massicce – compresa la nostra Via Lattea – contengono un buco nero supermassiccio al loro centro, e quando queste galassie entrano in collisione, i due buchi neri si avvicinano formando un sistema binario letale.
«Le orbite dei buchi neri finiscono per rimpicciolirsi sempre di più dato che perdono energia di moto mentre emettono le onde gravitazionali» spiega John Baker del Goddard. «I buchi neri compiono enormi spirali, avvicinandosi e finendo per scontrarsi e fondersi».
I buchi neri sono oggetti talmente massicci che nulla può sfuggire alla loro attrazione gravitazionale, nemmeno la luce: per questo sono «invisibili», nel senso che non emettono né riflettono fotoni. La maggior parte delle galassie massicce – compresa la nostra Via Lattea – contengono un buco nero supermassiccio al loro centro, e quando queste galassie entrano in collisione, i due buchi neri si avvicinano formando un sistema binario letale.
«Le orbite dei buchi neri finiscono per rimpicciolirsi sempre di più dato che perdono energia di moto mentre emettono le onde gravitazionali» spiega John Baker del Goddard. «I buchi neri compiono enormi spirali, avvicinandosi e finendo per scontrarsi e fondersi».
Ma perché è così importante riuscire ad osservare queste onde? Si tratta di uno dei fenomeni più estremi del nostro Universo, e capire a fondo i suoi meccanismi farebbe luce sui misteri delle leggi fondamentali della fisica, sulla morte delle stelle, sulla nascita dei buchi neri e, forse, anche sui primi attimi di vita del cosmo. Eppure, tra quest'infinità di informazioni ne manca una cruciale: le onde gravitazionali, infatti, non ci permettono di determinare la loro sorgente. Quindi, per capire da dove queste onde sono originate, gli astronomi dovranno rilevare un segnale elettromagnetico – il "flash" – che varia dalle lunghezze d'onda dei raggi X a quelle onde radio.
Per riuscire a rilevare questo segnale, gli astronomi dovranno monitorare ogni interazione tra buchi neri, il che potrebbe sembrare un'impresa ciclopica dato che questi buchi neri – che sono già difficili da osservare – si muovono a più della metà della velocità della luce.
Nel 2010, alcuni studi conclusero che queste interazioni incredibili possono – come già sappiamo – originare dei flash che ci potrebbero aiutare a localizzare la sorgente delle onde gravitazionali, ma nessuno poteva stimare quanto questi flash fossero comuni e perfino se fossero osservabili dal nostro pianeta oppure no.
Per far luce su questo mistero, un team guidato da Bruno Giacomazzo dell'Univesità del Colorado ha sviluppato le prime simulazioni computerizzate che mostrano il comportamento del plasma negli ultimi stadi di una fusione tra buchi neri.
Le simulazioni sviluppate da Giacomazzo e il suo team si occupano con particolare interesse delle interazioni elettriche e magnetiche nel gas ionizzato – una disciplina nota come magnetoidrodinamica, o MHD. Queste interazioni in un ambiente gravitazionale estremo sono state determinate partendo dalle equazioni della relatività generale di Einstein, e perciò il team ha dovuto fare uso di complessi codici numerici e velocissimi supercomputer.
Entrambe le simulazioni sviluppate dal team sono state create dal supercomputer Pleiads del centro di ricerca della NASA Ames di Moffett Field, California. Le simulazioni coprono le ultime tre orbite dei buchi neri e la successiva fusione. A questo punto, le due simulazioni prendono strade opposte: la prima tiene conto di un eventuale campo magnetico nel disco gassoso, mentre la seconda no.
Il supercomputer Pleiads. |
Altre simulazioni aggiuntive sono state sviluppate con i supercomputer Ranger e Discover, rispettivamente ubicati all'Università del Texas e al centro della NASA di Goddard. Queste simulazioni hanno avuto delle condizioni iniziali leggermente diverse – ad esempio, con meno orbite – così da creare altri scenari.
«Ciò che è incredibile della simulazione che tiene conto del campo magnetico è che il campo del disco di gas si intensifica rapidamente di circa 100 volte, e i due buchi neri durante la fusione sono avvolti da un disco di accrescimento più caldo, denso e sottile rispetto alla simulazione che non considera il campo magnetico» spiega Giacomazzo.
Il team pensa che questa intensificazione del campo magnetico sia dovuta al fatto che proprio quest'ultimo viene ripetutamente compresso e deformato. Infatti, secondo Giacomazzo, se la simulazione coprisse un numero di orbite maggiore, l'amplificazione sarebbe ancora più evidente.
Ma la cosa più interessante della simulazione magnetica è la presenza di una struttura simile a un imbuto che si sviluppa dal disco di accrescimento fino allo spazio. «E' esattamente il tipo di struttura richiesta per originare i getti di particelle che vediamo provenire dal centro di galassie attive» continua Giacomazzo.
Il risultato più importante ottenuto dal team è forse la determinazione della luminosità del "flash-indicatore" che ci permetterà di osservare la sorgente delle onde gravitazionali. Il team ha scoperto che questo flash è 10 mila volte più potente di quanto si pensasse, e sarebbe quindi ben visibile dalla Terra – in teoria.
«Abbiamo bisogno delle onde gravitazionali per confermare che c'è stata una fusione tra buchi neri, ma se riusciremo a capire a fondo le firme elettromagnetiche di queste fusioni, magari saremo in grado di scoprire fusioni-candidate prima ancora di osservare queste onde» conclude Baker.
Riuscire a osservare (e prevedere) i fenomeni più estremi del cosmo: le onde gravitazionali
Reviewed by Pietro Capuozzo
on
29.9.12
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