L'incredibile racconto di chi ha quasi rotto il telescopio Hubble
Navigando su Internet mi sono imbattuto in questa storia toccante della storica missione che nel 2009 ha eseguito l'ultima riparazione del telescopio spaziale Hubble. La storia, raccontata dall'astronauta che ha riparato il telescopio – e che, come si legge nel racconto, l'ha quasi rotto – descrive tutti i sentimenti che inondano lo spirito umano a 560 chilometri sopra il nostro pianeta, e come una passeggiata spaziale studiata per anni e anni possa andare incredibilmente male, e come un po' di astuzia, di coraggio e di brillantezza possano capovolgere la situazione. Un racconto veramente toccante e senza precedenti, da leggere tutto d'un fiato.
Estratto tradotto in lingua italiana da Polluce Notizie. Non si tratta di una traduzione ufficiale. I crediti sono riportati in fondo.
Estratto tradotto in lingua italiana da Polluce Notizie. Non si tratta di una traduzione ufficiale. I crediti sono riportati in fondo.
Nel 1984 frequentavo la quarta liceo e andai a vedere il film Uomini Veri. E un paio di cose in quel film mi colpirono veramente. La prima fu la vista fuori dal finestrino della capsula di John Glenn – la vista della Terra, quanto era meravigliosa sul grande schermo. Volevo vedere quel panorama. E, in secondo luogo, lo spirito di squadra tra i sette astronauti del film – com'erano buoni amici, come si aiutavano a vicenda, come non si sarebbero mai permessi di deludere qualcuno di loro. Volevo far parte di una simile organizzazione.
E ciò riaccese in me un sogno dell'adolescenza che si era spento nel corso degli anni. Quel sogno era di diventare un astronauta. E non riuscivo proprio a ignorare questo sogno. Dovevo raggiungerlo. Così decisi di andare all'università, e fui abbastanza fortunato da essere accettato nel MIT.
Mentre ero al MIT, incominciai a fare domanda alla NASA per diventare un astronauta. Compilai la mia richiesta, e ricevetti una lettera che diceva che non erano per niente interessati. Così aspettai un paio di anni, e inviai un'altra richiesta. Mi inviarono più o meno la stessa risposta. Così feci domanda una terza volta, e questa volta mi concessero un colloquio, così da conoscere chi fossi. E dopo mi dissero di no.
Così feci richiesta una quarta volta. E il 22 Aprile 1996 sapevo che la chiamata, buona o cattiva che fosse, stava arrivando. Presi in mano il telefono, ed era Dave Leestma, il capo delle operazioni di equipaggio al Johnson Space Center di Houston.
Disse, «Ciao, Mike. Sono Dave Leestma. Come va?»
E io dissi, «non lo so proprio, Dave. Me lo dovrai dire te».
E lui disse, «bene, penso che sarai abbastanza felice dopo questa chiamata, perché vogliamo fare di te un astronauta».
Tredici anni dopo, è il 17 Maggio 2009, e sono sullo space shuttle Atlantis, pronto a uscire e fare una passeggiata spaziale sul telescopio Hubble. E il nostro compito quel giorno era di riparare uno strumento che si era rotto. Questo strumento era usato dagli scienziati per rilevare le atmosfere di pianeti lontani. Pianeti in altri sistemi solari potevano essere analizzati usando questo spettrografo per cercare di trovare un pianeta simile alla Terra, o un pianeta che potesse ospitare la vita. E proprio mentre stavano diventando bravi a farlo, l'alimentazione elettrica aveva smesso di funzionare. Era scoppiata. Quindi lo strumento non poteva essere più usato.
E non c'era veramente nessun modo per rimpiazzare quest'unità o per riparare lo strumento, perché quando l'avevano lanciato e l'avevano preparato a un volo spaziale, l'avevano veramente abbottonato. Non volevano che nessuno svitasse questa cosa. Era abbottonato con un pannello di accesso che bloccava l'alimentazione elettrica che era scoppiata. Il pannello di accesso aveva 117 piccole viti con rondelle, e giusto per giocarsela sul sicuro, avevano messo della colla sulla filettatura delle viti così che non si rompessero mai. Immaginatevi, poteva sopportare un lancio spaziale, quindi non c'era alcuna possibilità di accedere e riparare questa cosa.
Ma volevamo indietro a tutti i costi la bravura di Hubble, quindi abbiamo iniziato a lavorare. E per cinque anni, abbiamo messo a punto una passeggiata spaziale. Abbiamo studiato oltre cento nuovi strumenti spaziali da usare – ad ampia spesa dei contribuenti, migliaia di persone ci hanno lavorato sopra. E il mio caro amico Mike Good (che chiamiamo Bueno) – io e lui saremmo andati fuori a fare questa passeggiata spaziale. Sarei stato io a completare la riparazione.
E dentro c'era Drew Feustel, uno dei miei migliori amici. Mi avrebbe letto l'elenco di controllo. E ci eravamo preparati per anni e anni a questo momento. Ci avevano costruito degli strumenti da pratica solo per noi e ci avevano dato il nostro set di attrezzi così che ci potessimo allenare in ufficio, nel nostro tempo libero, durante pranzo, dopo lavoro, nei weekend. Diventammo come una sola mente. Lui l'avrebbe detto, io l'avrei fatto. Avevamo il nostro unico linguaggio. E oggi era il giorno che saremmo andati là fuori e avremmo fatto questo compito.
La cosa di cui ero più preoccupato nel lasciare la camera stagna quel giorno era il mio tragitto fino al telescopio, perché era lungo il fianco dello space shuttle. E se guardi oltre il fianco dello shuttle, è come guardare oltre una collina, con 550 chilometri per andare giù fino al pianeta. E non ci sono corrimani.
Quando stiamo facendo una passeggiata spaziale, ci piace aggrapparci alle cose con i nostri guanti spaziali ed essere belli in equilibrio. Ma sono arrivato in questa posizione lungo la fiancata dello shuttle, e non c'era niente di buono a cui aggrapparsi. Dovevo aggrapparmi a un cavo o a una pompa o a un pomello o a una vite. E io sono un po' un grande stupido. E quando non c'è gravità, puoi costruirti un bel po' di momento, e mi sarei potuto lanciare nello spazio. Sapevo di avere una corda di sicurezza che avrebbe probabilmente retto, ma avevo anche un cuore di cui non ero certo. Ero sicuro che mi avrebbe riportato indietro, solamente non sapevo cosa avrebbero trovato alla fine della corda quando mi avrebbero tirato indietro. Quindi ero veramente preoccupato. Mi sono preso del tempo e ho completato il pericoloso tragitto fino al telescopio.
La prima cosa che dovevo fare era rimuovere una sbarra dal telescopio che bloccava il pannello d'accesso. C'erano due viti in alto, e vennero via facilmente. E c'era una vita in basso a destra che venne via facilmente. La quarta vite non si muoveva. Il mio strumento si muoveva, ma la vite no. Guardai da più vicino ed era rotta. E capii che la sbarra non sarebbe venuta via, il che significava che non potevo arrivare al pannello d'accesso con queste 117 viti di cui mi ero preoccupato per circa cinque anni, il che significava che non potevo arrivare all'alimentazione elettrica che aveva smesso di funzionare, il che significava che non sarei stato in grado di sistemare questo strumento oggi, il che significava che tutti questi intelligenti scienziati non avrebbero potuto trovare vita su altri pianeti.
E l'unico da accusare ero io.
E già potevo vedere cosa avrebbero scritto nei libri di scienza del futuro. Questo sarebbe diventato ciò per cui sarei stato ricordato. I miei figli e i miei nipoti l'avrebbero letto nelle loro classi: potremmo sapere se c'è vita su altri pianeti, se non fosse che il padre di Gabby e Daniel ha rotto il telescopio spaziale Hubble, e non lo sapremo mai.
E attraverso questo incubo che era appena iniziato, mi sono girato verso il mio amico Bueno, accanto a me nella sua tuta spaziale, ed era lì ad aiutarmi nella riparazione ma non poteva prendere il mio posto. Lui aveva le sue responsabilità, e io ero quello allenato a condurre la riparazione di quella che era ora la parte rotta. Era il mio compito sistemare questa cosa. Mi sono girato e ho guardato verso la cabina dove c'erano i miei cinque compagni di equipaggio, e mi accorsi che nessuno indossava una tuta spaziale.
Non potevano uscire e aiutarmi. E dopo ho guardato verso la Terra, ho guardato verso il nostro pianeta, e ho pensato, ci sono miliardi di persone laggiù, ma non c'è modo che otterrò una chiamata da casa stavolta. Nessuno può aiutarmi.
Ho sentito questa profonda solitudine. E non era una solitudine del tipo "un sabato pomeriggio con un libro". Mi sentivo staccato dalla Terra. Mi sentivo da solo, e che tutto quello che conoscevo e amavo e che mi faceva sentire a mio agio era lontano. E dopo tutto ha iniziato a farsi più scuro e freddo.
Dato che viaggiamo a 28 mila chilometri orari, novanta minuti sono un giro attorno alla Terra. Quindi ci sono quarantacinque minuti di luce e quarantacinque minuti di buio. E quando inizia a farsi scuro, non è semplice buio. È il buio più scuro che abbia mai visto. È la completa assenza di luce. Tutto diventa freddo, e potevo sentire quel freddo, e potevo sentire il buio avvicinarsi. Tutto si aggiungeva alla mia solitudine.
Nell'ora successiva, abbiamo provato tutto il possibile. Andavo su e giù dallo space shuttle, cercando di capire dove dovevo andare per prendere il prossimo strumento per cercare di risolvere questo problema, e niente stava funzionando. E dopo mi hanno chiamato, dopo circa un'ora e quindici minuti, e mi dissero che volevano che andassi di fronte allo space shuttle verso una scatola degli attrezzi e prendessi una pinza autobloccante e del nastro adesivo. Pensavo che stessimo esaurendo le nostre idee. Non sapevo nemmeno che c'era del nastro adesivo a bordo. Sarei stato il primo astronauta a usare del nostro adesivo nello spazio durante una passeggiata.
Ma ho seguito gli ordini. Mi sono recato sul fronte dello space shuttle, ho aperto la cassetta degli attrezzi e c'era il nastro adesivo. A quel punto ero molto vicino al muso dell'orbiter, proprio accanto alla finestra della cabina, e sapevo che il mio migliore amico era là dentro, cercando di aiutarmi. E non potevo nemmeno sopportare l'idea di guardarlo, perché mi sentivo talmente umiliato da come questa giornata stava andando, con tutto il lavoro che io e lui ci avevamo messo.
Ma con la coda dell'occhio, attraverso il mio casco, potevo appena vedere che stava cercando di attirare la mia attenzione. Mi sono girato verso di lui, ed era lì a piegarsi dalle risate, sorridendo e dandomi il segno dell'okay. E io pensai, c'è qualche altra passeggiata spaziale in corso adesso? Non posso dirgli niente, perché se dico qualcosa, il suolo mi sentirà. Houston. Il centro di controllo. Quindi stavamo giocando al gioco del mimo. E io gli feci, cosa sei, impazzito? E non volevo guardare, perché credevo che mi avrebbe fatto il dito perché sarebbe comparso nei libri di storia assieme a me. E invece disse, no, tutto okay. Stai ancora un po' là fuori. Ce la faremo. Siamo assieme. Stai andando alla grande. Stai là fuori.
E se c'è mai stato un momento nella mia vita in cui ho avuto bisogno di un amico, era quel momento. E li c'era il mio amico, proprio come avevo visto nel film, lo spirito di squadra di quegli uomini così uniti. Non credevo a niente di quello che mi diceva. Ma almeno pensavo, se fallisco, fallisco col mio migliore amico.
E mentre mi giravo e tornavo indietro lungo il pericoloso tragitto ancora una volta, Houston ci contattó e ci disse cosa avevano in mente. Volevano che attaccassi quel nastro adesivo sul fondo della barra per vedere se riuscivo a strapparla via dal telescopio. Mi dissero che ci volevano 27 chili di forza per riuscirci.
Drew rispose alla chiamata, e fece "27 chili di forza?"
Disse, "Mass, credo che ce li hai dentro di te. Cosa ne pensi?"
E io ero tipo, "Puoi scommetterci, Drew."
Tornai al telescopio e misi la mano sulla barra, e il suolo chiamó di nuovo, e dissero, "Bene, Drew, sapete, siete liberi di farlo, ma in questo momento non abbiamo un collegamento alla camera sul casco di Mile". Avevo queste camere montato sul mio casco, così che potessero vedere ciò che stava accadendo. È un po' come tua madre che guarda oltre la tua spalla quando stai facendo i compiti, avete presente?
E fanno, "Non abbiamo collegamenti per altri tre minuti, ma sappiamo che qui la stiamo tirando troppo lunga, quindi se dovete..." E io pensai, facciamolo ora che non possono vedere! Perchè il motivo che sto usando il nastro sulla barra è perché se si stacca un pezzettino qualunque, si preoccuperanno tutti, e staremo qui un'altra ora, e non ripareremo mai questa cosa. È già troppo per oggi.
Quindi pensai, facciamolo ora, mente la mamma e papà non sono a casa. Facciamo festa.
Quindi dissi, "Drew, credo che lo dovremmo fare ora".
E Drew disse, "Vai!" e bam! Quella cosa si staccò completamente. Tirai fuori il mio strumento elettrico, e ora avevo quel pannello d'accesso con quelle 117 piccole voti con le loro rondelle e la loro colla, ed ero pronto a tirarle fuori tutte. Accesi il mio strumento elettrico, ma non successe nulla, la batteria era morta. Così mi girai verso Bueno, sempre nella sua tuta spaziale, che pensava qualcosa tipo, cos'altro può andare storto oggi?
E dissi, «Drew, la batteria in questa cosa è morta. Torno indietro alla camera stagna, e ci scambieremo la batteria, e mi ricaricherò la mia bombola d'ossigeno». L'ossigeno stava scarseggiando, avevo bisogno di un pieno.
E lui disse, «Vai». Stavo tornando verso quello shuttle, e ho notato due cose. La prima era che quel pericoloso tragitto che ero così timoroso di percorrere – non mi faceva più paura ora. Nel corso di quella manciata di ore trascorsa a combattere questo problema, ero andato su e giù da quella cosa circa venti volte, e la mia paura se n'era andata, perché non c'era tempo di fare il gatto pauroso, era l'ora di completare il lavoro. E ciò che stavamo facendo era più importante di aver paura, ed era in realtà abbastanza divertente fare avanti e indietro dallo shuttle.
L'altra cosa che notai era che potevo sentire il calore del sole. Stavamo per entrare nel giorno. E la luce nello spazio, di giorno, è la luce più luminosa, bianca e pura che abbia mai visto, e trasporta con sé il calore. Potevo sentirla arrivare, e ho iniziato ad essere ottimista.
Infatti, il resto della passeggiata andò bene. Tirammo fuori tutte quelle vite, portammo una nuova alimentazione e l'abbottonammo. La misero alla prova, la accesero dal suolo. L'alimentazione elettrica funzionava. Lo strumento era tornato in vita. Alla fine della passeggiata spaziale, dopo circa otto ore, ero all'interno della camera stagna per preparare me e Bruno a rientrare all'interno, ma il mio comandante mi disse, «Hey, Mass, sai, hai ancora quindici minuti prima che Bueno sia pronto a rientrare. Perché non esci dalla camera stagna e ti godi la vista?»
Quindi andai fuori, portando con me la fune, e la attaccai al corrimano, e lasciai andare, guardai. E la Terra – dalla nostra altitudine di Hubble, siamo a 560 chilometri sopra. Potevamo vedere la curvatura. Potevamo vedere la rotondità della nostra casa, del nostro pianeta. Ed è la cosa più magnifica che abbia mai visto. È come guardare l'alto dei cieli. È il paradiso.
E mi dissi, questo è il panorama che mi immaginai in quel cinema tutti quegli anni fa. E mentre guardavo la Terra, notai che potevo girare la mia testa, e potevo vedere la Luna e le stelle e la Via Lattea. Potevo vedere il nostro universo. E potevo girarmi, e vedere il nostro splendido pianeta.
Quel momento ha cambiato la mia relazione con la Terra. La Terra era sempre stata per me come un paradiso sicuro, sapete, dove potevo andare a lavorare o stare a casa o portare i miei figli a scuola. Ma mi accorsi che non era proprio così. È veramente una nave spaziale. Ed ero sempre stato un viaggiatore spaziale. Tutti noi qui oggi, anche stasera, siamo su questa nave spaziale chiamata Terra, tra tutto il caos dell'universo, ruotando intorno al sole e attorno alla Via Lattea.
Tornammo un paio di giorni dopo. Le nostre famiglie vennero a trovarci nel campo d'aviazione. Stavo guidando verso casa con mia moglie, i figli dietro. E lei iniziò a raccontarmi ciò che aveva passato quella domenica che io stavo passeggiando nello spazio, e di come si era accorta, ascoltando, guardando il canale televisivo della NASA, di quanto ero triste. Che aveva rilevato una tristezza nella mia voce che non aveva mai sentito in me prima, e che l'aveva preoccupata.
Mi rammaricai di non averlo saputo quando ero lassù, per quella solitudine che provavo – in realtà, Carol stava pensando a me tutto quel tempo. Girammo l'angolo verso il nostro isolato e vidi che i nostri vicini erano fuori. Avevano decorato la mia casa, e c'erano bandiere americane ovunque. E il mio vicino dall'altra parte della strada aveva in mano una pizza ai peperoni e una confezione da sei lattine di birra, due cose che purtroppo non possiamo ancora avere nello spazio.
Uscii dalla mia macchina, e mi abbracciarono tutti. Ero ancora nella mia tuta di volo blu, e mi dicevano di quanto erano contenti di riavermi tra loro e come tutto fosse andato perfettamente. Capii che i miei amici avevano pensato a me per tutto quel tempo. Erano anche loro con me.
Il giorno successivo ci fu la cerimonia di rientro, ci fecero fare dei discorsi. Gli ingegneri che avevano lavorato con noi per tutti quegli anni, i nostri allenatori, le persone che lavoravano al centro di controllo, iniziarono tutti a urlarmi che stavano correndo di qua e di là come dei matti mentre io ero lassù nel mio piccolo incubo, tutto da solo. Di come avevano ottenuto la soluzione dal Goddard Space Flight Center in Maryland, e di come il team di domenica aveva capito cosa fare, e l'avevano controllato, e ce l'avevano detto via radio a noi lassù.
Capii che mentre mi sentivo così solo, così staccato da tutti gli altri – letteralmente, ero lontano dal pianeta – che in realtà non ero mai stato solo, che la mia famiglia e i miei amici e le persone con cui lavoravo, le persone che amavo e le persone che si preoccupavano di me, erano con me in ogni singolo passo.
Michael Massimino, astronauta italo-americano di origini siciliane della NASA, è stato due volte nello spazio, nel 2002 nella missione STS-109 e nel 2009 con la missione STS-125. In totale, ha trascorso 517 ore e 47 minuti in orbita attorno alla Terra, e 30 ore e 4 minuti letteralmente nello spazio, cioè impegnato in attività extraveicolari. Laureatosi dalla Columbia University e dal MIT, Michael è attualmente direttore esecutivo del Rice Space Institute alla Rice University, e fa anche parte dell'ufficio degli astronauti alla NASA. Questa storia, su gentile concessione del Johnson Space Center della NASA, è un estratto del libro The Moth, La Falena, curato da Catherine Burns. © 2013 The Moth. Pubblicato da Hyperion. Disponibile dal 3 Settembre.
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Getty Images
E dissi, «Drew, la batteria in questa cosa è morta. Torno indietro alla camera stagna, e ci scambieremo la batteria, e mi ricaricherò la mia bombola d'ossigeno». L'ossigeno stava scarseggiando, avevo bisogno di un pieno.
E lui disse, «Vai». Stavo tornando verso quello shuttle, e ho notato due cose. La prima era che quel pericoloso tragitto che ero così timoroso di percorrere – non mi faceva più paura ora. Nel corso di quella manciata di ore trascorsa a combattere questo problema, ero andato su e giù da quella cosa circa venti volte, e la mia paura se n'era andata, perché non c'era tempo di fare il gatto pauroso, era l'ora di completare il lavoro. E ciò che stavamo facendo era più importante di aver paura, ed era in realtà abbastanza divertente fare avanti e indietro dallo shuttle.
L'altra cosa che notai era che potevo sentire il calore del sole. Stavamo per entrare nel giorno. E la luce nello spazio, di giorno, è la luce più luminosa, bianca e pura che abbia mai visto, e trasporta con sé il calore. Potevo sentirla arrivare, e ho iniziato ad essere ottimista.
Infatti, il resto della passeggiata andò bene. Tirammo fuori tutte quelle vite, portammo una nuova alimentazione e l'abbottonammo. La misero alla prova, la accesero dal suolo. L'alimentazione elettrica funzionava. Lo strumento era tornato in vita. Alla fine della passeggiata spaziale, dopo circa otto ore, ero all'interno della camera stagna per preparare me e Bruno a rientrare all'interno, ma il mio comandante mi disse, «Hey, Mass, sai, hai ancora quindici minuti prima che Bueno sia pronto a rientrare. Perché non esci dalla camera stagna e ti godi la vista?»
Quindi andai fuori, portando con me la fune, e la attaccai al corrimano, e lasciai andare, guardai. E la Terra – dalla nostra altitudine di Hubble, siamo a 560 chilometri sopra. Potevamo vedere la curvatura. Potevamo vedere la rotondità della nostra casa, del nostro pianeta. Ed è la cosa più magnifica che abbia mai visto. È come guardare l'alto dei cieli. È il paradiso.
E mi dissi, questo è il panorama che mi immaginai in quel cinema tutti quegli anni fa. E mentre guardavo la Terra, notai che potevo girare la mia testa, e potevo vedere la Luna e le stelle e la Via Lattea. Potevo vedere il nostro universo. E potevo girarmi, e vedere il nostro splendido pianeta.
Quel momento ha cambiato la mia relazione con la Terra. La Terra era sempre stata per me come un paradiso sicuro, sapete, dove potevo andare a lavorare o stare a casa o portare i miei figli a scuola. Ma mi accorsi che non era proprio così. È veramente una nave spaziale. Ed ero sempre stato un viaggiatore spaziale. Tutti noi qui oggi, anche stasera, siamo su questa nave spaziale chiamata Terra, tra tutto il caos dell'universo, ruotando intorno al sole e attorno alla Via Lattea.
Tornammo un paio di giorni dopo. Le nostre famiglie vennero a trovarci nel campo d'aviazione. Stavo guidando verso casa con mia moglie, i figli dietro. E lei iniziò a raccontarmi ciò che aveva passato quella domenica che io stavo passeggiando nello spazio, e di come si era accorta, ascoltando, guardando il canale televisivo della NASA, di quanto ero triste. Che aveva rilevato una tristezza nella mia voce che non aveva mai sentito in me prima, e che l'aveva preoccupata.
Mi rammaricai di non averlo saputo quando ero lassù, per quella solitudine che provavo – in realtà, Carol stava pensando a me tutto quel tempo. Girammo l'angolo verso il nostro isolato e vidi che i nostri vicini erano fuori. Avevano decorato la mia casa, e c'erano bandiere americane ovunque. E il mio vicino dall'altra parte della strada aveva in mano una pizza ai peperoni e una confezione da sei lattine di birra, due cose che purtroppo non possiamo ancora avere nello spazio.
Uscii dalla mia macchina, e mi abbracciarono tutti. Ero ancora nella mia tuta di volo blu, e mi dicevano di quanto erano contenti di riavermi tra loro e come tutto fosse andato perfettamente. Capii che i miei amici avevano pensato a me per tutto quel tempo. Erano anche loro con me.
Il giorno successivo ci fu la cerimonia di rientro, ci fecero fare dei discorsi. Gli ingegneri che avevano lavorato con noi per tutti quegli anni, i nostri allenatori, le persone che lavoravano al centro di controllo, iniziarono tutti a urlarmi che stavano correndo di qua e di là come dei matti mentre io ero lassù nel mio piccolo incubo, tutto da solo. Di come avevano ottenuto la soluzione dal Goddard Space Flight Center in Maryland, e di come il team di domenica aveva capito cosa fare, e l'avevano controllato, e ce l'avevano detto via radio a noi lassù.
Capii che mentre mi sentivo così solo, così staccato da tutti gli altri – letteralmente, ero lontano dal pianeta – che in realtà non ero mai stato solo, che la mia famiglia e i miei amici e le persone con cui lavoravo, le persone che amavo e le persone che si preoccupavano di me, erano con me in ogni singolo passo.
Michael Massimino, astronauta italo-americano di origini siciliane della NASA, è stato due volte nello spazio, nel 2002 nella missione STS-109 e nel 2009 con la missione STS-125. In totale, ha trascorso 517 ore e 47 minuti in orbita attorno alla Terra, e 30 ore e 4 minuti letteralmente nello spazio, cioè impegnato in attività extraveicolari. Laureatosi dalla Columbia University e dal MIT, Michael è attualmente direttore esecutivo del Rice Space Institute alla Rice University, e fa anche parte dell'ufficio degli astronauti alla NASA. Questa storia, su gentile concessione del Johnson Space Center della NASA, è un estratto del libro The Moth, La Falena, curato da Catherine Burns. © 2013 The Moth. Pubblicato da Hyperion. Disponibile dal 3 Settembre.
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L'incredibile racconto di chi ha quasi rotto il telescopio Hubble
Reviewed by Pietro Capuozzo
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